le nuvole a mie compagne
di gioco.
Sulla collina dove è apparsa
la Madre Celeste
quante lodi di nuvole
d’ovatta.
Medjugorje è una cittadina
dell’Erzegovina dall’aspetto totalmente insignificante.
La parte nuova è compresa nella
pianura ed è costituita da case basse, quasi tutte pensioni, che circondano una
chiesa dal doppio campanile (che ricorda il santuario di Fatima), i soliti
negozi di cianfrusaglie sacre e i bistrò dove per 5,00 euro – in un unico
piatto – mangi pesce o carne fritta, patate fritte e lesse e verdure con riso;
infine una torta dello spessore di 8 centimetri al cioccolato o alla gelatina
di crema. Il centro si sviluppa lungo la strada statale che passa davanti alla
chiesa e si divide a “y”.
Dietro queste case di campagna
cominciano i campi arati, dalla terra rossa come piccoli campi da tennis,
affiancati gli uni agli altri senza un preciso ordine, come le case; e dal
momento che l’orizzonte, grazie alla pianura, alle dimensioni delle case e dei
campi, è piuttosto basso, qui la terra sta davvero sotto il cielo.
Poi la pianura si interrompe con
le colline che assomigliano più a dune di pietra grigia e terra rossa con i
cespugli secchi o bruciacchiati o piuttosto esse assomigliano ad accumuli di
ammassi di pietra appuntita di una qualche cava.
In questo posto totalmente insignificante, si
dice che sia apparsa la Madonna.
Sul traghetto per Spalato avevo
portato con me un taccuino con alcuni appunti: un passo del Vangelo di Luca,
nel quale si racconta dell’Annunciazione dell’Angelo e la risposta di Maria: Sia fatta la Sua volontà; qualche
messaggio della Madonna a Medjugorje, che terminano sempre con la medesima
frase: Grazie per aver risposto alla mia
chiamata; e infine, qualche informazione scaricata da Internet giusto per
farmi una prima idea del luogo che stavo per visitare.
Non immaginavo, seduto su quel
sedile del traghetto Ancona – Spalato, quale collegamento sottintendessero
quelle frasi – e se ce ne fosse uno – e in effetti cosa mi aspettasse
realmente: avevo con me solo i biglietti di andata e di ritorno.
Tempo prima però erano avvenuti
due fatti per me piuttosto singolari.
Nel primo caso, avevo sognato la
Madonna scendere dal cielo con le braccia aperte e dirmi: “Leggi la sura nr. 69
del Corano!”.
Documentandomi scoprii che si
trattava della sura dell’ora che sta per
arrivare, nella quale Maometto facendo riferimento alla punizione divina e
all’arca di Noé e agli errori interpretativi dei testi sacri precedenti al
Corano, rinnova l’invito al cambiamento spirituale in virtù di un giudizio
universale che prima o poi arriverà; da qui il tempo dell’ora. Nel versetto 50 infine si legge: Tu canta osanna al nome del Signore grandissimo.
Nel secondo caso, mi trovavo
comodamente sdraiato sul divano del mio appartamento a guardare un programma
pomeridiano condotto dal giornalista Sposini, il quale stava intervistando un
altro giornalista, Paolo Brosio, che raccontava del suo recente viaggio a
Medjugorje e quanto quest’ultimo lo avesse profondamente cambiato; i suoi
occhi, ripresi dalla telecamera con molta attenzione, mi colpirono
particolarmente, leggendovi sembrava un’infinita serenità.
Così avvertii una voce interiore che mi disse di fare la
stessa cosa.
All’episodio non diedi poi molta
importanza. Arrivò la sera e mi misi a letto. Qualcosa mi girava nella mente
rendendomi impossibile addormentarsi. Lo stesso fenomeno si ripeté anche la
sera seguente. Infine, parlando a me stesso, dissi: - Ho capito, andrò a Medjugorje.
–
Questo è ciò che precedette la
mia partenza. Il resto fu spirito di curiosità e il piacere di ritrovarmi da
solo – come mi capita spesso – e di condividere con gli estranei le varie
scoperte.
Sul traghetto mi aggregai infine quasi immediatamente
a un gruppo di pellegrini guidati da don Tiziano e da una donna di mezza età,
Anna, dall’accento marchigiano e miracolata dalla Madonna di Medjugorje;
entrambi si resero disponibili a darmi una mano.
A Spalato, salii così
nell’automobile di una famiglia composta da marito e moglie e la figlia, Gioia,
affetta da sclerosi multipla e con uno sguardo vivace nonostante il viaggio in
traghetto tutt’altro che confortevole.
Partimmo quasi subito per
Medjugorje con la sensazione di essere immersi in un’atmosfera che non avrei
potuto dimenticare. Ora mi raccontavo a quella famiglia come se l’obiettivo che
ci portava in quei luoghi ci rendesse meno insignificante la considerazione
ovvia – per noi – che la Madonna è una madre che chiama i figli che desiderano
sentirla.
Il mare era uno specchio grigio –
per via del mal tempo – e mi sembrava che il paesaggio fosse meno affascinante
rispetto a tutte le volte che lo avevo visto in estate nell’aria fosforescente
e nel sole della canicola.
Ben presto però salendo lasciammo
il mare per entrare nelle montagne regolari, grigie, di pietra spigolosa, di
cespugli secchi e con molti casolari abbandonati durante la recente guerra.
Vedevo i cimiteri allestiti un
po’ ovunque, i cumuli delle fosse comuni, mentre salendo le vette erano sempre
più vicine e il mare un lago che si insinuava nella roccia grigia.
Passammo la dogana croata e poi
quella bosniaca attendendo il pullman con gli altri pellegrini in mezzo alla
campagna e ai cespugli di fragole in fiore nel timore che la polizia bosniaca
potesse chiedere una mancia. Ma ciò non avvenne e rimontammo in auto notando
che in questa eterna campagna – anche quando passavamo per qualche villaggio –
c’erano merciedes ovunque, parcheggiate o in movimento e di tutti i colori.
- E’ perché così è più facile
procurarsi i pezzi di ricambio. – mi fece notare Antonino alla guida e
fissandomi attraverso lo specchietto retrovisore.
Arrivammo a Medjugorje per l’ora
di pranzo. E non provai nessuna sensazione particolare fissando la chiesa dal
doppio campanile, la cui architettura – abituato ai monumenti italiani – mi
sembrò piuttosto dozzinale. Dall’altra parte della strada c’erano i bistrò e i
negozi di cianfrusaglie sacre e da quest’altra parte invece le pensioni.
Quasi subito salutai la famiglia
e promisi a Gioia che non sarei sparito con un occhiolino che lei mi ricambiò,
mentre Antonino l’aiutava a sedersi sulla sedia a rotelle.
Attraversai la strada piuttosto
affollata e seguii una prima indicazione. In un vicolo parallelo al piazzale
del duomo, tra pensioni ancora in costruzioni, lessi l’insegna: pansion Dina.
Si trattava di una casa su due
elevazioni, del tutto simile alle altre, anche a quelle in costruzione, con una
piccola veranda con qualche pianta. La porta era semplicemente socchiusa e
oltre, una donna corpulenta mi mostrò la chiave e con le dita mi disse che
voleva 20,00 euro per notte, ma con il bagno in camera e l’acqua calda ma senza
colazione inclusa.
Accettai e salii immediatamente
in camera per fare una doccia.
Mentre disfacevo lo zaino,
ripensai alla pace del santuario – visitato durante il tragitto – chiamato La piccola Lourdes, per via della
somiglianza incredibile con l’originale e dove si dice che anche qui sia
apparsa l’Operaia della Pace – come
la chiamo io.
Velocemente avevo riempito le
bottigliette con l’immagine della Madonna per i miei affetti nella fontanella
votiva, mentre Antonino camminava tenendo Gioia ferma al petto e aiutandola a
portare avanti un piede alla volta.
- Io noon soon puur… - mi aveva
detto lei in auto ad un certo punto.
- Cosa? Non ho capito, scusa! –
avevo risposto aspettando una traduzione.
- Ha detto che lei non è neppure
un chiodo della croce di Cristo. Facci l’abitudine; ogni tanto se ne esce con
questi pensieri che don Tiziano ha consigliato di trascrivere tutti. –
- Bel pensiero. – dissi allora
fissando quei grandi occhi che insieme alla bocca si sforzavano di pronunciare
la prossima frase.
Dopo la doccia, raggiunsi il
duomo.
Ai lati dello stesso c’erano 7 o
8 file di panchine, per permettere a tutti di ascoltare la messa con
l’altoparlante quando la chiesa era gremita; alle spalle un gazebo bianco
utilizzato durante il festival dei
giovani, che mi pare si tenga in
estate; e di fronte una passeggiata con ai lati le stazioni della via crucis,
una piazzetta con un crocifisso forse in bronzo, dal cui ginocchio destro, l’ho
visto anche io, fuoriesce continuamente del liquido leggermente oleoso,
incolore e insapore; e per finire il cimitero del paese circondato già dalla campagna.
Ma la mia attenzione era rivolta
invece alla collina dell’apparizione. Per cui, con una piantina scaricata da
Internet e seguendo alcuni cartelli stradali, cominciai a passeggiare seguendo
quasi subito un sentiero tracciato semplicemente dal passaggio di chissà quanti
piedi tra le case basse e i campi da tennis, tra qualche bancarella
artigianale.
La collina dell’apparizione ora
era di fronte a me: del tutto identica alle altre, sembrava un accumulo di
pietra appuntita e grigia con pochi cespugli legnosi. E già si intravedeva il
punto preciso della visione, a causa di una statua di marmo di Carrara, posta
da una famiglia buddhista in seguito a una guarigione inspiegabile, e
nonostante il divieto della curia e della stessa Madonna, secondo la quale
quella collina deve restare così com’è, perché quando Lei deciderà di non
tornare più, ha promesso nel 3° dei 10 segreti ( e ancora tali! ) di lasciare
un segno indelebile e a tutti visibile, soprattutto a chi non ha creduto a
queste apparizioni.
Di fronte a me c’era una fila di
pellegrini, ma non tantissimi, forse per via del tempo instabile (parecchie nuvole stavano
cominciando ad ammassarsi, anche se il sole era ancora ben visibile ), o perché
erano i giorni successivi alla Pasqua e la folla c’era già stata.
Ad un certo punto vidi che molte
persone, anche quelle che avevano raggiunto la collina, indicavano il cielo e
più precisamente il disco solare.
Io mi volsi, e tranne che notare
un cielo straordinariamente luminoso e dei dardi di luce, come lampi, apparire
tra i cumuli (ma poteva trattarsi benissimo di riflessi causati
dall’esposizione prolungata degli occhi alla luce solare), proprio non vidi
nulla di anormale. Perciò, mi avvicinai ad una donna che sentivo parlare in
italiano e le chiesi che cosa stesse succedendo.
Lei mi rispose: - Sto vedendo nel
disco solare un altro sole più scuro che gira velocemente intorno a se stesso;
da questo escono dei raggi di vari colori: dorati, rossi e azzurri. – e mi
indicò nuovamente il sole, che mi riapparve assolutamente normale.
Così continuai a camminare,
fissando la statua di marmo farsi sempre più grande e ogni tanto il cielo per
vedere se anche a me fosse concessa la visione
del sole.
Quando mi trovai alle pendici
della collina (e dopo aver superato alcune case più vecchie del centro e i
soliti negozi di cianfrusaglie sacre), mi aggregai a un gruppo di anziani per
ascoltare il discorso della guida, che subito capii era del posto.
Si trattava di una ex compagna di
classe di una dei 6 veggenti che vedono tutt’ora la Madonna; più precisamente
questa donna conosceva Vicha, la più grande di età del gruppo: al tempo della
prima apparizione, Vicha aveva 17 anni.
Man mano che salivamo, pregando a
ogni stazione (e la guida leggeva sempre alla fine un messaggio della Madonna,
che invitava alla pace e alla preghiera soprattutto), nel frattempo ci spiegava
alcune cose.
Ad esempio, ci disse che la
collina era stata lasciata così brulla e con il passaggio piuttosto impervio,
per diretta richiesta della Madonna, che anzi ora era anche più largo, ma nel
1981, non esisteva e che quando i veggenti andarono in paese urlando di aver
visto la Madre Celeste, tutti erano accorsi, passando tra i cespugli alla meno
peggio, fino al luogo indicato e che immediatamente il giorno stesso un fiume
di persone era accorso dai paesi circostanti. E così i giorni seguenti fino a
quando il regime autoritario allora al governo, temendo che il fenomeno potesse
contrastare l’ordine pubblico, cominciò a vietare il passaggio ai
pellegrinaggi; furono poste delle guardie alle pendici della collina, ma esse
si convertivano ogni volta; allora il governo pensò di prelevare ogni giorno i
6 ragazzini, che venivano interrogati e minacciati, poi abbandonati in un paese
vicino, per cui loro dovevano far ritorno a casa a piedi e al buio; e il giorno
seguente li prelevavano nuovamente per interrogarli e minacciarli.
Lei raccontava queste cose con
molta concitazione.
Sulla collina si sentiva il
silenzio, il profumo di erba e vedevo la pianura rossa e verde marcio con il
duomo e le pensioni intorno e sospiravo per la profonda serenità.
Infine, la guida ci disse che dal
quel momento lei ci avrebbe lasciato raggiungere il punto dell’apparizione, ma
chiedeva silenzio.
Così noi ci avviammo tutti verso
il punto; e io mi meravigliai come molte donne veramente in là con l’età
riuscissero (anche scalze) a camminare tra quei sassi appuntiti senza cadere.
Poi eccoci tutti davanti a nostra
Madre; i suoi figli erano lì a renderLe omaggio; arrivati da strade interiori
differenti, eravamo tutti intorno a Lei per condividere un momento di
raccoglimento. E anche io – non mi vergogno a dirlo – piansi per la commozione
e pregai.
Inviai a tutta la rubrica del mio
cellulare lo stesso messaggio (Sono a
Medjugorje e sto pregando anche per te); i miei affetti mi risposero
ringraziandomi e chiedendo l’intercessione.
Quante persone e quanti percorsi!
Osservai per 3 ore – seduto su un
sasso levigato – le persone che arrivavano e poi si inginocchiavano davanti al
recinto metallico che circondava la statua bianca.
Poi quando il sole rosso passò
dietro l’ultima collina, mi alzai per tornare lentamente in paese. Alle pendici
della collina si era riunita una folla intorno ad una di quelle case, con il
terrazzino e la staccionata. Mi avvicinai a un gruppo di italiani e chiesi
informazioni.
Sul terrazzino c’era Vicha che
stava pregando per i pellegrini.
Così mi feci largo tra i corpi –
e rimanendo sulla strada – vidi una donna molto minuta vestita semplicemente,
in ginocchio con le mani giunte davanti alla bocca e gli occhi rivolti verso il
cielo.
Muoveva la bocca sempre nel
sorriso e le parole non erano udibili; ma quando recitava il Padre Nostro o l’Ave Maria allora tornava la voce; poi lei si girava lentamente
fissando la folla che pregava con i volti bassi.
Qualcuno mi disse alle spalle che
quando Vicha fa così, sta passando in rassegna le esistenze di ognuno di noi e
di ognuno ricorda ogni cosa anche a distanza di tempo…
La preghiera era stata lunga,
commentò una donna alla mia sinistra.
Vicha nel frattempo si era alzata
e la folla oscillava freneticamente per cercare di parlare o di toccare la
veggente, che restava sul terrazzino dietro alla ringhiera per non farsi
travolgere dai corpi che ora spingevano molto.
Poi seppi che tempo prima la
donna aveva subito la distorsione della spalla e che aveva dovuto restare a
letto per 9 mesi.
Chissà, forse era stato allora
che aveva ricevuto l’ennesima visita inattesa dalla Madre Celeste; si era
scoperchiato il tetto dell’abitazione – c’era anche un altro veggente, di cui
non ricordo il nome – e tutti e 3 avevano visto il Paradiso, il Purgatorio e
l’Inferno, riattualizzando così una rappresentazione ritenuta ormai datata.
Io mi feci largo alla meno peggio
tra la folla che spingeva sempre di più e arrivai davanti al terrazzino, sul
cortile interno alla casa bassa per vedere meglio la donna magra e il viso; e
in effetti, lei aveva un viso molto sereno, gli occhi luminosi e un sorriso
rassicurante.
C’era chi le passava delle
lettere, chi la baciava e chi le stringeva la mano; ma molti spingevano e
allora si alzavano le voci, chi cercava di uscire dall’ammasso di corpi per non
soffocare e una donna ricordò con tono piuttosto severo che Vicha non era
differente da tutti noi, perché tutti noi eravamo lì solo per la Madonna.
Alla fine anche io strinsi la
mano, incoraggiato da una signora anziana del gruppo di don Tiziano sbucata da
chissà dove. E quando strinsi la mano di Vicha sentii una scossa elettrica
passare per tutta la lunghezza del mio braccio.
L’indomani seguii il gruppo di
pellegrini per un tour che prevedeva di incontrare gli orfani della recente
guerra nell’orfanotrofio di suor Cornelia e poi il Cenacolo di suor Elvira che
ospita ragazzi ex tossicodipendenti.
Il dolore della storia si
incontra sempre con la spiritualità e vivere in comunità simili deve essere
davvero difficile, come ci testimoniò Francesco, raccontandoci della vita
presso il Cenacolo, scandita dal rosario e dalle attività.
Ma il mio interesse era anche un
altro.
Da anni conduco studi volti a
fare interagire le differenti religioni; quindi mi interessava vedere anche
Mostar, dallo storico ponte, luogo di incontro, che unisce la costa con
l’entroterra dell’Erzegovina, e sbocco della
via commerciale che dal mare passa al resto dell’Europa; città divisa in 2
anime: quella turca e quella cristiana; e dopo le 22.00 la perfetta dualità
viene ribadita al punto che un cristiano non può passare dall’altra parte e
viceversa.
Città profondamente colpita dalla
recente guerra; il ponte è stato distrutto e ricostruito e i palazzi e le
moschee bombardate.
Ma gli odi – come spesso succede
– celano somiglianze troppo scomode, celate dal bisogno di affermare
un’identità precisa e non un obiettivo comune.
Così anche nel Corano la Madonna
è citata come madre di Gesù, la madre vergine – ma in una visione a mio avviso
piuttosto mistica – e in un numero maggiore di volte che nei Vangeli canonici,
nei quali Maria è soprattutto inquadrata come ventre e tramite per permettere il passaggio fisico di Dio nel
mondo; mentre nei messaggi di Medjugorje, Lei acquisisce una funzione attiva
nel realizzare, come emisfero femminile, e assieme a Gesù, l’emisfero maschile,
la determinazione di Dio.
Non più solamente una tramite, ma
piuttosto una forza attiva (la sfera femminile dell’umanità), che fondendosi
con la sfera maschile (Gesù) determina Dio nella vita dell’umanità.
Giunsi allora in quella cittadina
grazie a un passaggio di un uomo anziano, nella sua merciedes; lui appena mi
sorrise, senza poi più rivolgermi la parola, ascoltando una litania in lingua
araba – almeno così mi sembrò – e fumando parecchie sigarette con il finestrino
chiuso.
Perciò fissai il paesaggio per
tutto il tempo: montagne sempre più alte e aspre, villaggi abbandonati e
semidistrutti, i cimiteri con le fosse comuni e i grandi corsi d’acqua molto
fluida tra le rocce levigate e grigie.
Poi l’uomo si girò verso di me e
fece cenno alla cattedrale di cemento, che indicava il quartiere cristiano di
Mostar. Ringraziai e scesi dall’automobile.
Il centro storico turco con il
ponte e le moschee non era molto distante.
Il ponte era un unico braccio con
un arco molto acuto – come il ponte di Rialto – bianco e con le torri, le
sentinelle della struttura, che è fatta totalmente in pietra bianca e sovrasta
il fiume Neretva, impetuoso tra i fianchi della gola, e sembra pettinare la
vegetazione che appena è visibile sul pelo dell’acqua, come i corsi di Treviso.
Dal ponte un ragazzo in costume
vi si tuffava, salutando i pochi turisti che si affacciavano ai parapetti del
ponte, mentre lui si lasciava trascinare dalla corrente per poi raggiungere la
riva sinistra, di pietra e delimitata da case bianche e basse ammassate l’una
sull’altra.
A destra del ponte c’erano delle
piccole case, stanze singole con porte di legno, allestite a mo’ di bar, dove
il ragazzo in costume e altri con la tipica barba islamica bevevano il caffè,
che versavano in tazze di rame, nelle quali restava sul fondo la posa del caffè.
Anche io ne bevvi uno, mentre un
ragazzo mi mostrava un libro con le foto del ponte distrutto dai bombardamenti
o i palazzi forati dalle palle dei cannoni.
Poi passeggiai e fissai i
mausolei e le cupole delle moschee; visitai l’interno della moschea di Karadoz
– beg. Il quartiere storico con i mercati e il passaggio di qualche donna con
il burka, che mi spaventò. E infine ascoltai una lezione di Corano in una
scuola elementare sul tappeto e in un angolo dopo aver pregato l’insegnante
dicendo che non avrei dato fastidio:
- E cosa spiega? – gli chiesi in
italiano perché lui lo parlava.
- La sura nr. 69 –.
Uscii da quella scuola avvertendo
una strana nostalgia, che non saprei definire, come una reminiscenza di cose
già sentite e amate molto tempo fa.
Anche qui cimiteri e cumuli di
terra e le date della morte indicavano sempre gli anni 1993 o 1994.
Passai allora nel quartiere
cristiano quando cominciò a piovere più insistentemente; nella cattedrale di
cemento assistetti a un battesimo, mentre con il cellulare mandavo messaggi
pieni d’amore verso Dio a mia madre, che voleva essere informata minuto per
minuto.
Alla fermata dell’autobus attesi
per circa un’ora, nonostante l’invito di un uomo del posto ad attendere con
fiducia.
Cominciai a camminare in
direzione della periferia, che si spingeva verso quartieri residenziali
aggrappati alle pendici della montagna piena di vegetazione.
Feci l’autostop senza grossi
risultati. Ma questa volta non avevo con me ne il cappello e neppure
l’ombrello; la pioggia si faceva pungente e stava salendo la nebbia
dall’asfalto che rendeva sfumati i contorni della strada.
Mostar era ora parecchio in basso
in mezzo alla pianura che sembrava un lago nella nebbia per via
dell’acquazzone.
Non ero per nulla ottimista e ad un
certo punto, vedendomi solo, sul ciglio della strada, nella condizione di
essere travolto da un’auto di passaggio e con il tramonto che sopraggiungeva,
dissi a bassa voce:
- Non voglio morire -.
E quasi subito sorrisi,
ripensando a tutte le volte che avevo affermato di non temere la morte; non si
è mai pronti alla morte; e promisi che mai più avrei affermato il contrario.
Si fermò una merciedes guidata da
un mio coetaneo, Vasilj, che mi disse di essere un operaio, che stava andando
giusto a Medjugorje per ricevere una grazia e infine che non dovevo
ringraziarlo perché era merito solamente della Madonna; io insistetti però nel
ringraziare anche lui.
Tornammo indietro e io non parlai
quasi per nulla.
Il giorno seguente mi aggregai al
gruppo di pellegrini e nell’automobile della famiglia di Gioia raggiungemmo la
chiesa Tihaljina, che contiene la statua della Madonna che riproduce
perfettamente la visione di Medjugorje e ha un viso davvero molto intenso.
Don Tiziano, che fino ad allora
avevo appena scorto sull’autobus o a parlare con Anna, per la prima volta lo
ascoltai raccontare l’episodio della sua conversione spirituale, quando cioè
proprio sull’altare di questa chiesa, aveva sentito la sua voce interiore rincuorare un grande dubbio esistenziale.
Poi toccò ad Anna raccontare
della sua guarigione.
Lei era arrivata in questa chiesa
su una barella perché malata di tumore alla mammella e in fin di vita.
Se non ricordo male, raccontò di
aver visto una luce uscire dal tabernacolo dove c’erano le ostie, mentre il
prete officiava la messa.
La statua di Cristo quindi si
tolse un chiodo e sollevò la moribonda che miracolosamente guarì di lì a poco.
Avevo letto nel libro di don
Tiziano, regalatomi dalla madre di Gioia, dell’amore per la Madre Celeste; in
quel momento lessi una frase: “… il
devoto innamorato, fissando lo sguardo di Maria, … desidera come Lei ripetere
il suo sì: atto d’amore, di totale donazione alla volontà del Padre …”.
Recitammo l’Ave Maria tenendoci tutti per mano e includendo anche la statua
della Madonna, con le mani anche Lei leggermente in avanti e i palmi rivolti
verso l’alto.
E intesi la prima delle 2 frasi
che avevo portato con me: Sia fatta la
sua volontà; intesi cioè che sentire Dio è un atto volontario, una
decisione attiva che si tramuta in un abbandono poi alla marea della vita, alla
sua imprevedibilità, come questo viaggio per nulla organizzato, per assaporare
tutte le sorprese e le sensazioni.
E intesi infine la seconda frase:
Grazie per aver risposto alla mia
chiamata: la chiamata esiste
indipendentemente dalla volontà dell’uomo di volerla sentire, rendendo il
libero arbitrio in fondo vano essendo la vita giustificabile solo in Dio
creatore; la intesi così quel giorno… lasciai il rosario tibetano che avevo al
collo – regalatomi da 3 monaci tibetani durante un ritiro spirituale a
Montecatini Terme – sul basamento della statua in segno di pace.
L’indomani partii per Spalato
aggregandomi ancora alla famiglia di Gioia e promettendo che avrei spedito, una
volta tornato a casa, il resoconto di questo viaggio.
Salutai i pellegrini al porto
un’ora prima della partenza; mi trovai una camera in un appartamento di una
donna anziana del posto; feci velocemente una doccia in un improbabile bagno da
poco ristrutturato, e tornai di corsa al porto per salutare mentalmente la nave
che al tramonto – rosso fuoco – partiva per l’Italia; io avevo altri 2 giorni
per vedere Dubrovnik, Sarajevo e Trogir.
La nave partiva lentamente come
la sera che sopraggiungeva; fissando quindi le stelle, rivolsi a me stesso
questo sms, giunto dalla mia mente e chissà forse anche dalle stelle, e che
dedico a tutti i miei affetti: L’amore è
non scegliere mai, ma attendere che sia il tutto a scegliere come esprimersi
nel nostro cuore.
CON PROFONDO AFFETTO A TUTTI I FEDELI....