sabato 29 novembre 2014

METRICA ESOTERICA - versione completa - composta nel 2006 a Brisighella utilizzando per ogni poesia un metro di tutti i tempi e paesi del mondo.



1)
Acrostico

Annoto – su questo quaderno di ritmi
Nuovi versi del labirinto di camere:
Giacimenti dentro i quali girerò
Emozionato come un imbecille.
Lavavo così – da bambino – la coscienza
Annusando le maglie di mia madre.


2)
Alba
a Maria
Dall’alba – mai più un trovatore:
re – senza lo strascico dei tuoi capelli.
Un solo sms per dirmi che non devo
confonderti – con le altre margherite.


3)
Alessandrini in distici
al mio amore
Con occhi di brace    fissava il vuoto;
l’aurea di luce    veniva dal vuoto.
Sentiva i pensieri    di tutto il mondo:
chiudeva gli occhi    come soffrendo
quando la mia ansia    come una marea
in un’elettricità    sfiniva la linea.
Allora la sua aurea    di color rosa
con raggi al quarzo    si faceva rossa;
il capo reclinato    come in preghiera
avvertiva il peso    della mia sfera.
Ho voluto il suo sguardo    puro più del cuore
paesaggio di viole    per sempre amore.
Ali di anice    come cappella
riversò su di me    la vita bella:
pepite d’oro    come l’orgasmo
dalle ali sottili    nel mio organismo;
passione in vena    e occhi di stella;
muscoli turgidi    e pelle bella.
Alzai le braccia    e dalle mia dita
schizzò la bramosia    di tutta una vita.         


4)
Ballata

Ho così amato la vita poetica.
Ho sentito in profondità – la Cantica.

Di entusiasmi qua – ne trovo ben pochi.
Se prendo il treno – vuol dire che sono stanco.
Di entusiasmi si vive – anche se pochi.
L’adrenalina è l’acqua – senza il fango;
è una particella magnifica.
Ho così voluto una luce poetica.
Ho avvertito dentro di me – la Cantica.

Come un banchetto di satiri neri
ho ascoltato le infamie e l’invidia.
Combatto contro i cumuli neri:
gli invidiosi corrosi d’accidia;
però sostengo la grande fatica. 
Ho così pensato in veste poetica.
Ho parlato con voi – della Cantica.


5)
Canzone

So di un luogo dove biancheggia – l’aria.
Il sole ha smesso di ferire
come gemma – per non perire
ha baciato le creste bianche – dell’aria.
Una volta – anche io per non morire
ho preso la mia poesia
la metrica della poesia –
e come un flauto – ho deciso di partire.
Da tempo – per partire
avevo detto no! al paese
e in riva al fiume del paese
avevo strappato gli abiti e la vela
alla tempesta che attraversa – il Segno.
Forte – l’impeto della vela!
Un giorno vidi un muso
un cervo con un grande muso –
pensai: - Il Segno atteso! –;
mi tramutai – in acqua – in un pesce – offeso.

L’ossigeno mi giungeva più denso.
Ma che pensieri maestosi
tramonti meravigliosi
anche se emergevo da liquame denso!
Non so per quanto tempo – avrò nuotato
toccando con la pancia
il pelo della sabbia;
come la rabbia – restavo travisato.
Se il pelo s’è abbassato
con le pinne e con la mano
trascinando sempre la mano
ho guadagnato la ribalta della conca.
Ho visto dei marinai
gli scafi marci dei marinai;
i mulinelli di schiuma
degli scavi – al tramonto; rossa la schiuma.

Di notte – il fondale diveniva – freddo
un po’ malinconico;
un po’ nostalgico;
così – sospiravo nel mattino – freddo.
Gli spazi erano più ampli di un manico;
il liquido – sempre – più freddo
e nel buio – più – del freddo.
Poi – le prospettive si aprirono – nel viatico
abisso malinconico;
in alto – un piatto verde:
il sole – il mio prato – verde
dietro alle ombre – di pesci – in branco.
Nel mattino – del nuovo giorno
incerto e già stanco –
temevo quest’abisso
il mio scuro abisso
dal sapore salato:
la mia conchiglia – di fango – incrostato.


6)
Capitolo

Così abbracciamo i vecchi ricordi
e gli eventi della quotidianità
e la poca razionalità
che resse le trame e i ragionamenti.

La vita – con i titoli di coda – struggenti
prolunga la tensione del nuovo abito
l’abito del trapassato:
un velo sui suoi occhi – increduli.
Occorre abituarsi ai moduli
della nuova visione tridimensionale
non il cubo naturale
dell’esperienza dello stagno.

L’ascesa rende i cieli dei vapori;
l’identità personale – si dissolve;
si scuce – per sempre – in trame – collettive.


7)
Cuaderna vìa

Ti aspetto così    lampada sferica;
da questa collina    con la mia metrica.
Ho puntato il cielo    verso la Casa Bianca;
vi entrerò – poi – per    via esoterica.         


8)
Decima rima

Arabeschi – tessuti preziosi
pizzicati – dai fili dorati;
onde di trine e tulle – in orli sinuosi
ciuffi scomposti – in aria – spettinati;
arazzi in nebbie – di cirri flessuosi
in festa il cielo – per i nuovi arrivati;
tutto poi deve essere perfetto:
le coccarde e i centrini del banchetto;
un’aria mite – come fosse tramonto
per non disorientare – chi lascia la vita.


9)
Discorso
a Jacopo da Lentini
Cielo d’affresco
già armonico
un traino bianco;
sfera statica
già magnifica
attrae – a sé – il mondo;
in ogni modo
fonde – a sé – il creato.

Lancia gli angeli
nei cuori dei soli
con pugni d’ali;
stanno sui tetti
così costretti 
dalla – tua – miseria;
la voce seria
fonde – a sé – il creato.

Unica guida
questa tua strada
ama la preda;
è la sapienza
nell’essenza
rafforza i colori;
con dei valori
fonde – a sé – il creato.


10)
Distico elegiaco

Quando penso a te
Laica – credi:
tutto è come la corte
di maree – in piedi.


11)
Dodecasillabo

A volte ho visto quei figli prediletti
sostare – in cirri luminosi – sui tetti;
parlare sommessamente della vita
con garbo – indicare il sole – sbiadito
e attendere dalla sfera – un risvolto:
per tutto il mondo – poi – per tutta la mia vita.


12)
Epigramma

Mio padre è nel pigiama d’ospedale;
in sogno – è come ero io – da ragazzo:
un libro d’architettura sullo scaffale
pieno di progetti – frutto di un pazzo.


13)
Epitalamio

Sarai la prima a sposarti
Laura – almeno – dici…
a settembre – le tue narici
aspireranno i gigli
i fiori per rincuorarti
e che noi ti lanceremo;
poi ti benediremo:
auguri e mille figli!

Sarai la perfetta sposa
Laura; poi Antonio
il nuovo eroe – io lo conio:
pazienza e discoteca! 
Ma tu – il viso di una rosa;
sii sempre felice –
sii sempre felice –
sii sempre – discoteca!


14)
Haiku

Cade la neve…
un cervo alza la testa:
buh – sulla neve!


15)
Idillio

La mia vecchia collina
sulla quale ti porto
per fare l’amore
come le tue pecore
tintinna piegata
accogli la pepita
della mia collina.


16)
Lauda

Dispiega le ali rosse
e non cadrò nelle fosse.

Dalla tua sfera di luce
è avvinta la mia pace
e i miei occhi nei tuoi – di brace
le lune maestose!


17)
Lassa

Quando prenderai questo libro
Nila – giudicherai le catene
che tintinneranno – in cadenza
sotto il palato – nella lettura.
Proverai a lasciare – il libro
per non sentire più le catene;
cercherai le altre cadenze:
la realtà – la verità – e via – la lettura. 


18)
Letrilla

Sbriciolare la parola:
come i petali di viola –
per nutrire di profumo –
il corpo come un ramo –
già – in inverno – sotto la neve.

L’amore nel prossimo
è lo stagno che animo
con balzi di libellula;
è la danza – poi – sempre – bella
del sorriso – che si riceve.


19)
Madrigale

Aveva il viso di una partoriente;
gli occhi come i laghi di Plitvice.
Era stato spinto dalla mia mente

a lasciare le nuvole – color anice.
Mi fissava con la stessa reverenza
del primo incontro – a Monselice

da bambino: un bacio alla sua partenza:
Cherubino – Angelo di pazienza!


20)
Mottetto

Diffido – quando professi – rigore!
La diversità – è la cavalla – selvaggia
dei tuoi costumi – e già!
Non deve – mai – saltare questo fosso:
temi – racconti – i peccati – del tuo osso.


21)
Motto confetto

Chi parla tanto
del proprio peccato
con l’occhio affamato
chiedendo perdono
crede sia intensa
la propria – intensa – esistenza – illusa;
c’è chi fa – senza perdono.


22)
Nona rima

Si parte da un punto – ascensionale.
D’istinto apro le braccia – tendo il collo;
l’affresco è molto in su – sopra le scale:
i cherubini sostengono – il cumulo.
Le figure – bianche – sono la visuale;
che dolce felicità – lungo il collo…
abbandono i pensieri – in ascesa
in orizzontale – si pone – poi – questa Casa:
gli astri – nel pensiero – sono –  tutto – un cumulo.


23)
Novenario

La solitudine è questa:
mia paura di non piacere
quanto a un cherubino – il cielo.


24)
Octavilla

Ha avuto inizio qui:
sul balcone mi parlasti;
una sottile aurea
per non sopire il mattino.
Mi hai parlato proprio qui:
sul balcone mi dichiarasti
un’unione aurea
fin quando sarà mattino.


25)
Ode

A te affido il passaggio
dal letto – alla porta tienimi – così
per mano – un pomeriggio;
difendimi – così
da chi – si spaccerà per amico caro – sì …

Aspetto l’occasione
di parlarti da adulto – come s’usa
quando il nostro Padrone
taglia la vita insulsa
da rimpiazzare – nel giro – come s’usa.

Tu – però – devi amarmi
com’è giusto – fa il papà;
devi – proprio – amarmi;
come me – sei stato – tu – papà
indifeso; dentro trapasso – come te – papà.


26)
Ottava

La luce si sovrappone – in molti fasci
per diventare bianca – si travisa
e mostra di volta in volta – questi fasci;
come l’anima – preserva – la diversa
angolazione di pulsioni – che lasci
quando l’inadeguatezza – si travisa:
paura di corrispondere – alla voce
collettiva - che ti vuole – come la luce. 


27)
Polimetro

Passano attraverso
le molecole rigide
ne sono il legame esoterico.
Leggono sul mio viso
l’espressione che li deride:
credo poco nel legame esoterico.

Ma l’angelo è sferico
conosce il moto grave
dei pianeti - i mutamenti
di danza dei satelliti
la prospettiva monotona ma lieve
della mia conca nera:
i pugni stretti della coscienza nera.


28)
Prosa ritmica

Parte lo sguardo davanti, alla stradina che percorro da ore, bagnata dalla pioggia della notte trascorsa; foglie marroni come la sabbia di Siena, io alzo gli occhi usando un tronco verde come guida: l’edera che si ripete all’infinito, mentre la vegetazione fosforescente in prospettiva sempre più piccola sulla collina, fino a quando non si distinguono che punti cromatici ben abbinati di foglie e di bosco che fermentano il cielo di rosso e di giallo, per sempre, nella mia memoria.


29)
Quarta rima

L’anima è un’astronave tra le stelle;
cerca in esse un po’ di consolazione:
un consiglio per scegliere: quale di quelle
era presente prima della ragione?

Da qui – l’antigravità disorienta;
punti evanescenti e in dissolvenza:
le stelle: luce – lungo la linea retta
invito di vita o coda già passata?


30)
Rondeau

Alzo gli occhi al cielo
per vedere i cirri.

E’ il mio modo più bello:
alzo gli occhi al cielo
per avvertire il velo
della Luce – celata dai cirri.

La verità è un velo.
Alzo gli occhi al cielo
ti dico – e spero che il velo
un giorno – sparisca tra i cirri. 


31)
Seguidilla

Ho bisogno di vedere
dove conduce
il vento dei cherubini:
ali di luce.


32)
Selva

Che luce brillante che tutto definisce;
l’orizzonte è la cintura
che mi chiude in mezzo:
sto volando.


33)
Sequenza

Quando s’arriva alla colonna sonora
e gli affetti si alzano ad unisono;
le poltrone del cinema ora si svuotano
ancora – per qualche minuto – nei commenti;
le voci – sempre di più – echi vuoti
l’aria si fa bruna nei contorni vacui;
più i sentimenti e gli amori vacui
in dissolvenza – come l’alba – il trapasso;
nel cono di luce – entro cui ci sarà il travaso
sarà una camera – e appena un’occhiata.


34)
Serventese

I volti fissano tra i pannelli bianchi
come in un separé – ci si nasconde da chi
non sia colmo dei medesimi raggi bianchi.
La verità è un’estasi;
ma chi è in grado di capire – chi;
lo sa solo l’estasi.

Qui – mi devo scontrare con i medesimi pesi:
le illazioni dei – poveri – invidiosi;
mai una elevazione – d’estasi.
Invece – vedo il cielo
immutabile tra i cirri – fumosi
da far rizzare il pelo.


35)
Sestina
al mio angelo custode, Gabriele
L’antigravità lo rendeva bambino
come la carne bianca senza gli ormoni
respirava solamente con l’azoto;
chino sulla mia testa – lui – Perlaceo
mi parlava della conca del cosmo
e delle stelle – come della mia vita.

Conosceva le interconnessioni e la vita
con la lungimiranza dei moti del cosmo;
in me cresceva l’amore per il Perlaceo
e rifiutando i moti degli ormoni
diventavo poi il suo caro bambino:
un canovaccio – di quella sfera d’azoto.

Salimmo – qui – sulle volte d’azoto
dove sembrò il cielo tutto il mio cosmo;
paragonai le comete a ormoni
i moti degli astri a capricci da bambino
che conosce solo una linea di vita
e non si affida ai segreti di Perlaceo.

Però – io mi affidavo al mio Perlaceo!
Rapito – come è di solito un bambino;
mi affidavo ai consigli d’azoto:
i ragionamenti sulla nuova vita;
la visione interiore del mio cosmo;
la guida per gestire i miei ormoni.

E – in effetti – salivo come gli ormoni;
giù – avevo una visuale di vita
completamente sbrogliata – da Perlaceo;
e già la visione eccitava il bambino
che vedeva le particelle d’azoto
che compongono tutti i corpi del mio cosmo.

E vidi i gas primordiali del mio cosmo;
le fughe di luce nei buchi della vita;
l’angoscia come alito d’azoto;
e le volte che aveva cantato – Perlaceo
per me – affinché tornassero gli ormoni
e fossi di nuovo il suo caro bambino.

Mi chiese di non dimenticare che il cosmo
è l’insieme dei pensieri – di Perlaceo;
la linea che lega – a Sé – la nostra vita.


36)
Sonettessa

Non puoi sempre restare nell’empireo;
confonderti tra i melensi cirri;
mostrare l’occhio dell’empireo
quando ti fa comodo o quando ti giri.

La gente è stufa di tutti i vecchi libri:
storie di catastrofi ambientali;
poi le contraddizioni tra i diversi libri
per confondere ulteriormente i mali.

Sinceramente – mi sento un cretino;
raggirato come fossi un bambino
a cui raccontano storie sempre diverse.

Sii qualche volta un po’ più carino;
c’è chi per sentirti – beve vino
sperando di entrare nelle tue Case.

Abbiamo tanti mali;
stacci – cielo d’orizzonte – vicino:
un pensiero – che sia per noi – sereno.


37)
Sonetto
ad Antonio Fogazzaro
Il mio futuro dietro un paravento.
Ombre come gli affreschi giapponesi
spio tra gli interstizi sorridendo.
All’improvviso avverto dei pesi:

è il mare – che và controcorrente?
Intravedo schiuma di onde lividi?
Sostengo l’attesa con la mia mente
quando vedo tra gli interstizi i lidi.

Passa ora anche tra i buchi il vento;
appoggio le guance e spingo percuotendo:
voglio sentire abbracciare il mare

finché cade in giù il paravento
schiantandosi nel tonfo del sospetto:
che non ci sia realmente quel mare.


38)
Stornello

Vedo le tue ali:
un velo di trine azzurre in dissolvenza
sugli occhi; mi difendi dalla luce - lì…


39)
Strambotto

(strofa siciliana)
Ringrazio sentitamente per l’abbraccio.
Quando ho avuto bisogno – lo so
hai attraversato questa camera – e ciò
ha guarito il malinconico – rosso
umore di non avere uno – slancio
dal mondo – che sa essere – così – grasso.
Ho bisogno di un forte abbraccio;
e di un rombo di luce – azzurro – se posso.


(strofa toscana)
Non vedi quando nervosismo respiro;
aliti – sugli autobus e per strada;
tutti che corrono senza respiro;
a mangiare cibo – sporco – per strada;
a correre in palestra – tutti in coro;
a parlare della guerra e della moda
come fossero – proprio – la stessa cosa:
immagini da fissare – in ogni casa. 


40)
Tanka

Duttile sole
si adeguò ai cirri
evanescente
gocciolò poi – tra i pini.
Ma la montagna non gradì.


41)
Terzina dantesca

L’anima evapora nella fragranza
un’area ellittica di cobalto
aleggia per poche ore nella stanza.

La visione del mondo avviene in alto
un naso che fiuta tutti i sentimenti
rosso – nell’avorio spento.

Con l’ascesa – si estinguono gli affetti;
la vita – un fiume stinto dalla siccità.
L’eternità – coperchio su tutti i tetti. 


42)
Veneziana

Pesa le parole dette
e vedrai quante cattiverie
disseminate come coriandoli.

Enumera le proteste
che tutte le tue cattiverie
avranno prodotto – più – tutti i mali.

Perché – tante proteste
e – poi – tante cattiverie;
potevi essere il guaritore dei mali.


43)
Verso sciolto

Valicare il muro
soprattutto se oltre si sentono
suoni tintinnanti; le aspirazioni
come un paesaggio visto dalla
finestrella del bagno – una volta
da bambino.

Architravi di cherubini
gli uni sugli altri – si dipanarono
fino alle architetture rinascimentali
come la matematica dei semplici;
un boato improvviso dal cielo.

Così mi lasciai condurre da quei cori
e la prospettiva salì come una scala a chiocciola
mentre avvertivo un moto ascensionale
e vertigini di cobalto.

Allora il boato divenne la vastità della mia
visione; gli ultimi cornicioni di muscoli
in tensione; come siluri passavano le particelle
di luce; l’orizzonte diveniva una cintura
che si chiudeva.

Sospeso – nell’immutabile nulla dell’antigravità
per un po’ – sarò sembrato una rana nel fotogramma
del salto – a zampe divaricate – nel mistero
che sarà per sempre – questo mio creato.  


44)
Villanella

Tante volte ho sentito le storie
di malati che alla fine delle – scorie
vedevano i parenti già defunti
seduti al capezzale dei letti;

o nell’inquadratura di una porta
aspettare il malato passare la porta
per entrare nel mio grande mistero
e deridere – poi – chi teme il – mistero.

Credo che i malati raccontino le storie
perché i finali sono anche retti
dal bisogno di lasciare i malati
stessi – nelle mani di chi sarà oltre la porta
e abbraccia anche per noi – quel mistero
su cui specula – ogni – Libro – del – Mistero!

45)
Zejel

Quando sarà il tempo
della partenza – per un po’
sarà – intimo – il tempo;
dovrà la quotidianità
cedere alla – realtà
dell’irrazionalità.

Arriverà il parente
che in modo sfuggente
ti dovrà far presente
che la quotidianità
non è – poi – la sola – realtà:
ma c’è – l’irrazionalità.


46)
Zingaresca

Si racconta di un tunnel
dove la vita si dispiega
come il ventaglio – di una saga:
sulle pareti – gli schermi:

le immagini – per raccontarmi
le azioni e – le reazioni
sotto gli sguardi sereni
solo – apparentemente:

una parola – nella mente
può produrre – dei segni
che – i più alti –  dei pegni
mai – rimargineranno.


47)
Gianky

Sai – ho contato le rime con le dita!
Ora ti lascio andare:
con l’ultima.

Qua – sono stato
nel mio passato:
dentro ritmi di vita.
Cadenzo – ormai – anche queste foglie;
anche con le dita – picchietto le foglie;
la poesia è la rabbia – leccata dal mare
che sa fingere paesaggi – con la lima.

Lascio la lima;
e riprendo a passeggiare:
dovrò pur far riposare le dita!


lunedì 24 novembre 2014

ACROSTICI - poesie

IL TEMPIO
(50x60 cm, tecnica mista su tela)

GLI ACROSTICI MALIGNI

I
Godevo nelle gengive; con la mano
ereggevo l’albero maestro in camera
rallentando il ritmo, sognando
armi distese nei cessi; poi
ricordavo quando all’infanzia bastava
dominare, strofinandosi sul ginocchio
o sul piede del parente che le parlava.

a Ilaria
II
Non lasciare avvizzire i capelli
se l’umidità volgare ti sarà
fatale. Credi agli spiriti superiori
che varcarono la vita
e non li riconoscesti.

III
Voi che guidate i bisogni della gente
indovinate ciò di cui ho bisogno!
Tanti provarono pena per il biondino
autistico seduto sulla sdraio.
Ma poi masturbandosi sognava prati
asimmetrici e il paradiso che lo aveva
linciato, imponendogli la realtà.
Indovinate ciò di cui ho bisogno!
Girandole in sere di pioggia.
Nidi caldi con genitori.
Alghe sotto le mattonelle.
Ai borghesi inculerei le loro figlie
magroline beneducate e serve;
e invoco l’era del sommo creatore;
navi erudite di libri di poesie;
zombi più vivi dei borghesi di paese;
orsi polari uccisi dai fucili;
girasoli che girano senza valori;
nanne di bimbi annoiati e stanchi.
A me che devo vivere nella menzogna.

IV
Sono il forno che non vuole far sapere
che il pane è bruciato. Vivo sulle strade
per osservare l’umanità che nei sottopassaggi
carezza. Ma quando esco
sento le voci e i passi della mia gente.
Qualcuno mi fissa dall’inquadratura dell’
ingresso; fa cenno con la testa che lo segua:
mentre scendo, l’ingresso taglia le
gambe.

V
Sotto la palpebra
scoscesa
c’è l’occhio vivo. Disteso dietro la
schiena, il braccio poggiato sulla
panchina. Ascolti con labbra sottili;
sulle tempie i capelli sono gonfi
e la magrezza del viso è giovanile.
Già siamo stanchi di vivere;
e respiri la mia nebbia
annoiata. Voglio protezione
e poi abbracciami come sai.

VI
Non credere facile
ascoltare la gente
quando tra i viali
sovrasta auto e semafori:
districarsi tra le vite;
flessibile nel giudizio;
e il desiderio di morire
per la noia; la solitudine
nei locali dalle pareti ocra
e le sedie; le fiere
i colori i vapori e il discorso
di chi pretende solidarietà
sulla piazzetta di fronte. Credo nell’
umanità che pensa libertà
tra cunicoli sotto le strade;
a prati con la città per fondale;
e all’intimo desiderio
d’immortalità.

VII
Vivo il forte disagio
del flauto traverso. Ma è
necessario che ogni tanto
lo suoni. Soffiarci
e non morderlo
per il tuo e il mio piacere.
Questo il sogno più alto:
il flauto traverso dentro
le labbra, quando tra pareti
ocra e bambini di carta
si sente la contrazione
dei glutei, mentre suona
il flauto traverso.
E traversare le strade
della città, con l’andatura
incerta
del ballo di flauto.

VIII
Sensazione di morto
se baciandoti sento
i fiori di camposanto. E’ il soffio
al cuore a sporcarti la pelle?
Ma sugli abiti sento l’incenso:
non abusare di me.
Al massimo
Salito sull’incudine che mi ponesti
ostentavo baldanzose oscenità;
nella camera mi compiacevo sempre; poi
offrivo all’amante del vicolo il canto:
faremo – dicevo – passeggiate sui prati
avendo tra le mani il pinzimonio
roteando il tuo matrimonio
baceremo la moglie gioviale.
Ora è ora di andare
come zombi dal demonio.
Coraggio, vieni a mangiare
datteri acidi nell’olio;
ieri credevo di sapere
e oggi mi va di sperimentare;
o sapere alla gente fa male.

X
Pensai che il paese fosse la mia giustizia
e che i cipressi indicassero i vapori.
Restai silenziosamente a fissare quella tomba
lavando il vetro dell’auto di famiglia.
Evocavo il passato dalla città assegnata
sperando che la vita fosse una corda tesa.
Trovai spesso scarafaggi sorpresi dalla mia commozione.
Ritornai in strada a fissare i sottopassaggi:
avrò percorso miliardi di chilometri con la scoliosi;
detto trecento miliardi di miliardi di frasi fatte
e pochissime frasi vere e sincere - perché sono un
principe simulatore; avrò respirato più aria-urina; e
avrò sorriso toccando gli amici tra le colonne. Respirai
ricordo – aliti cariati nei cessi pubblici;
lesinai carezze mentre l’acqua sporca cadeva nei tombini;
ordinai che l’amante godesse a scatti e mi ascoltasse;
ansimai nelle auto mentre mia madre lavorava.
Indovina se sono sempre stato così: la natura vuole
mortificare chi sognava torri e lacci emostatici.
Offrirò sentori a chi credette di capirmi mescolando;
ridarò dignità anche ai diseredati che godono;
ti prenderò la pelle chiusa tra le rotaie;
indovinerò perché mi bacerai quando piangerò per te.


lunedì 3 novembre 2014

Una pagina del mio romanzo per parlare di meditazione....

La Vergine dell'Islam




Propongo la lettura di un capitolo del mio romanzo "L'aria nelle narici" edito in formato ebook e cartaceo sul portale di Amazon Libri. In questo passo, racconto il senso della meditazione e parlo delle illusioni che la mente crea per distogliere l'anima dalla vera conoscenza universale:


"Il maestro e gli allievi si sdraiarono sulle coperte, che creavano un cerchio sul prato. Chiusero gli occhi e portarono il respiro sul bassoventre. Rilassarono i muscoli e le funzioni rallentarono. Chiusero gli occhi.
—Osservate lo schermo nero senza cercare di visualizzare i pensieri, ma semplicemente, ascoltate il loro flusso. Non è possibile interrompere i pensieri —la voce di Guido era infantile—. Lasciate che la gravità agisca sul corpo. Abbandonate i muscoli alla forza di attrazione della terra.

Cominciarono ad arrivare gli odori dall’erba appassita. Il vento piegava le punte dei pini. I rami scricchiolavano. I cumuli frusciavano. Anche l’aria era un’unica massa, che scorreva sulle montagne per sgretolarsi sulle rocce. Le foglie l’assorbivano, come stracci imbevuti di clorofilla.
I polmoni degli allievi si dilatarono tra le fragranze e i movimenti. La terra attraeva i corpi con il dondolio prodotto dai battiti del cuore, che sotto la nuca e nelle regioni declivi, produceva un tintinnio regolare, che nell’inspirazione accelerava e nella espirazione rallentava. La coscienza scese più in basso e coincise con la pelle che aderiva al terreno. A questo punto, fu automatico entrare nella terra, tra i granelli e i propri interstizi. Le venature profumate della terra e le mille sfumature. Le radici dei pini distese, come mani sprofondate a raccogliere il nutrimento direttamente dal suolo. La terra adesso respirava come un polmone asmatico che si dilatava, spostando i pini leggermente sui lati: una volta indietro nell’espirazione, e una volta in avanti nell’inspirazione. Al centro della terra c’era una sfera luminosa, che Guido indicò e dentro la quale chiese di entrare.

Galleggiavano contro le pareti di pellicola trasparente e con le venature dorate. Gli allievi vi aderirono e i rumori prodotti da tutto il globo e da tutti gli esseri viventi, più quelli dell’intero universo, filtrarono nei pori della membrana, che ne distorceva le frequenze, per cui il contenuto non era immediatamente comprensibile. Il liquido, in cui nuotavano come le rane, vibrava: sembrava uno stagno pizzicato da cerchi concentrici, che si mescolavano gli uni con gli altri.
—Osservate come le esistenze si intersecano e sono connesse —commentò il maestro. Annamaria sospirò, quando le parve di riconoscere voci femminili e il verso di un cervo. Giunsero le conversazioni delle città e tra le città. Gli pneumatici che scorrevano sull’asfalto. Un cane che si grattava. L’inclinazione impercettibile dell’asse terrestre, come quando si deforma una tavola di legno sotto il sole. Il sollevamento della marea e le onde frizzanti. Gli aerei di linea. Una stella nana stava morendo.

Quando il maestro lo chiese, gli allievi si posero sul fianco, rannicchiandosi e restando sempre a occhi chiusi. Si sollevarono lentamente, assumendo la posizione seduta. Incrociarono le gambe e cercarono la posizione più adatta con la schiena, in modo che la colonna vertebrale si allineasse all’apice del cranio. Il maestro aspettò che il respiro tornasse regolare.
—Fatevi aiutare dagli alberi –suggerì—. Ora, aprite gli occhi. —Lentamente gli allievi sollevarono le palpebre— Cosa vedete? Non rispondete. Osservate.

Gli oggetti avevano luminosità inedite. C’era un alone evanescente intorno a ogni pino o stelo d’erba, e persino intorno ai cumuli. Sulle punte dei pini l’alone era arancione e si faceva più intenso in controluce. Se lo si fissava davanti agli altri alberi, l’alone poi assumeva nuance rossastre e in basso rosso porpora. Una felicità senza obiettivo percuoteva lo stomaco e Oliviero rideva a scatti. Tutti fissavano il paesaggio, come se lo vedessero per la prima volta. Non era merito dell’alone. Era merito della gioia, che faceva capolino e che pungeva alla base del collo. Esso si espandeva. Tutto era vivo. Le pietre ad esempio possedevano una specifica vibrazione. Vi era un rimando confuso di input di comunicazione, come schegge luminose spinte nell’aria.

—Vi chiedo adesso di fissare il cielo.
Restando perfettamente fermi, cercarono per pochi secondi di fissare il cielo con il terzo occhio, una pressione tra le sopracciglia. Perciò, la visione non era ne frontale e né un po’ più su. La visione coincideva quasi con la posizione dell’apice del capo, come se la fronte cercasse di guardare sopra la testa.
—Abbassate gli occhi. Occorre allenamento e pazienza —esortò il maestro—. Coraggio, ora riprovate.

Gli allievi risollevarono i globi oculari, in modo che la fronte cercasse di vedere l’apice del capo.
—Sempre fissando il cielo in questo modo, con le mani rivolte al cielo, ora vi chiedo di sollevare un piccolo peso dal ventre al volto. Ciclicamente, ripetete l’operazione.
Eseguirono.
Le mani sollevavano realmente qualcosa, che dal ventre, come il mercurio nel termometro, a piccoli balzi saliva lungo il canale centrale della colonna vertebrale. Era come un liquido giallo molto denso, che produceva sensazioni specifiche, a ogni passaggio. Nella cavità del bacino, produceva un solletico. Allo stomaco, somigliava a un sasso lanciato nell’acqua, creando imbuti spettacolari. Al cuore, una commozione e una dilatazione delle costole. Al collo, un’altra dilatazione e un massaggio alle corde vocali e all’ugola. Agli occhi, le vibrazioni passavano come onde evanescenti ma colorate e a bande soffuse. Alla fronte, si sentiva la sensazione di una mano calda. Infine, l’energia uscì dalla fontanella, come una colonna, che diradò nell’aria circostante.       

La coscienza pian piano si sdraiò sul cielo e la sensazione fu una lievitazione anche del corpo. I pini scorrevano davanti agli allievi, spinti da questo moto ascensionale, fino al punto, che ne videro le punte sotto i propri piedi.
Anche Alberto guardò sotto di sé: il suo corpo se ne stava seduto sulla coperta e dall’ombelico partiva un cordone argenteo, che terminava nell’ombelico di questo corpo sospeso. Intorno a lui c’erano gli altri allievi e il maestro. Inoltre, vide gli animali del bosco correre come biglie in ogni direzione, spaventati dal movimento dell’aria prodotto dall’ascensione del gruppo. Gli alberi ancora dondolavano vistosamente, mentre la polvere di neve dal suolo si era sollevata come la farina davanti a una corrente d’aria. Orazio ebbe paura vedendosi sospeso a mezz’aria e si dimenò spalancando gli occhi e le braccia.
—Abbi fede —gli disse il maestro— non sei solo un corpo.
Ma Orazio continuò ad agitarsi. Pian piano ritornò nel corpo seduto, che poi si accasciò privo di sensi sulla coperta.
—Non abbiate paura —esortò ancora il maestro.
Gli altri allievi erano rimasti interdetti dalla reazione di Orazio.
—Piuttosto cosa sentite?
—Molta calma —sospirò Annamaria.
Le punte dei pini si radunavano in basso, perché il moto ascensionale continuava. Il cielo abbracciava l’intera visione. Assomigliava ad un oceano.
Annamaria era diventata improvvisamente seria.
Il maestro se ne accorse —Cosa c’è?
—Vedo delle immagini… penso che siano dei miei ricordi.
Il maestro spalancò gli occhi —E’ la mente razionale, che vuole riprendere le redini. Allontanali. Sono tracce.
Annamaria puntava il vuoto, come quando si fissa distrattamente lo schermo di un televisore. Anche lei tornò indietro, attraverso il cordone color argento e Alberto vide in basso il corpo della ragazza, appena visibile tra i tronchi, che sembravano tanti fiammiferi,  accasciarsi sulla coperta con le braccia e le gambe spalancate.
A questo punto, il volto del maestro tradiva sconforto— Quei due non ricorderanno più nulla —disse con se stesso.

Oliviero aveva spalancato le braccia e sembrava che desiderasse abbracciare qualcuno o qualcosa. Si avvicinò il maestro e gli chiese— Che cosa vedi?
—Vedo la Madonna. Indossa un mantello turchese e l’abito bianco, ha una fascia intorno ai fianchi e delle rose tra le dita dei piedi. Mi sta sorridendo. Mi sta sorridendo e ha una voce meravigliosamente soave. Sento poi dei cori di bambini e ora li vedo tra le nuvole, che sorreggono la Signora.
—Stai rendendo simbolica la tua gioia. Quest’immagine è prodotta dalla tua mente. Non è reale.
Oliviero si girò verso il maestro con un’espressione severa— Menti. Lei mi ama ed è qui. E’ la Mamma!
—Resta sulla sensazione, ti prego —esortò Guido con la tristezza nel cuore.
Oliviero cominciò a scendere, continuando a fissare nel vuoto l’immagine, che si allontanava nel cielo.
Alberto era rimasto da solo. Il maestro gli sorrideva— Tu non costruisci niente?
—Capisco solamente adesso che Dio è sempre stato dentro di me.
La gioia scorreva tra le molecole del cielo e la gravità le teneva nella giusta posizione. Dappertutto la forza creatrice attraeva la materia e la direzione non era alimentata da un pensiero cosciente. Ogni cosa ne conteneva la memoria e l’amore del primo atto divino. L’eco risuonava a unisono in tutto l’universo, come una preghiera. La materia rendeva omaggio.".